“I profili psicologici inerenti alla cosiddetta genuinità della risposta”

di Renato Palma

 

In democrazia il compito che attribuisco alla giustizia è porre rimedio ai fallimenti relazionali. Una relazione può considerarsi fallita ogni volta che qualcuno fa ricorso alla forza.

L’obiettivo della giustizia non è solo dare una risposta a ciò che è successo in passato ma anche gettare le basi per un futuro migliore: un futuro nel quale le persone possano vivere più serene e sicure, proprio perché al riparo da soprusi.

Proprio per questo il modo in cui è amministrata la giustizia può essere o semplicemente la riproposizione della società com’è, o diventare un esempio di come le relazioni tra le persone potrebbe essere.

Sempre giocando di fantasia, o di utopia, o di progettazione, il mondo della giustizia dovrebbe essere sperimentato come un porto sicuro, un bacino di carenaggio dove la nave da crociera della vita fa sosta per le necessarie riparazioni.

C’è chi lavora quotidianamente nel porto e chi viene occasionalmente ospitato, come i cittadini che vogliono giustizia o che hanno infranto la legge.

Noi dobbiamo occuparci di chi ci lavora e aiutarli a riflettere su quali sono i modi per ottenere il risultato che, tutti insieme, cercano di raggiungere.

Il tema di questo convegno è la psicologia della prova.

E ognuno di voi conosce gli strumenti e le raffinatezze necessarie a fare in modo che la prova venga raccolta nel migliore dei modi.

Dire psicologia della prova non vuole solo dire troviamo il modo per essere certi di quello che stiamo raccogliendo. Vuol dire parlare della soggettività della prova.

Von Foester sosteneva che non esiste oggettività neanche in campo scientifico, semplicemente perché qualunque oggettività ha bisogno di un soggetto che la comunichi e pertanto diventa soggettiva.

Nel campo della giustizia è fondamentale il riconoscimento della soggettività nella costruzione del racconto e nell’interpretazione della prova. Ovviamente non solo la soggettività del testimone o dell’accusato.

Anche la soggettività del giudice, dell’avvocato, del pubblico ministero; la loro identità, la loro griglia di valori.

Le simpatie e le antipatie. La possibilità che quello che ascoltano, o di cui si occupano, vada a innescare in loro una reazione emotiva, un rifiuto, una resistenza.

La pazienza della ricerca, o la fretta di volere, o dovere, trovare di nuovo un equilibrio nel sistema perturbato. Le pressioni e le attese sociali.

Il dottor Affronte e io abbiamo pensato di affrontare il tema come una riflessione a due voci: quella di chi per professione cerca di capire come si muove l’animo umano, e quella di chi delle varie mansioni del giudice ha fatto e fa quotidiana esperienza.

Anche attraverso i dubbi e il desiderio di non buttarseli alle spalle solo perché il tempo è troppo poco.

 

La giustizia si muove ancora tra le due colonne di Ercole della paura e del potere. Paura di non essere creduti, paura di non essere tutelati, paura di essere puniti.

La giustizia dovrebbe essere il luogo ultimo di riconciliazione sociale e garantire la possibilità di essere trattati bene, sia quando si è subito un torto, sia quando abbiamo fatto del male.

In assenza di questo, o in attesa che, attraverso il nostro lavoro di riflessione e ricerca, questo si realizzi, si impone una domanda: è possibile pretendere che una risposta sia genuina in una situazione asimmetrica dove il potere decide di farti paura, e quindi di non metterti a tuo agio?

La risposta intuitiva è no.

Provate a immaginarvi nella condizione di dover rappresentare le vostre ragioni, o i vostri sentimenti, di fronte a qualcuno che deve decidere se prenderle in considerazione, se considerarle vere.

Questo vi pone in una condizione di inferiorità e pertanto di non genuinità.

Pensare che una qualsiasi forma di comunicazione sia genuina, più che di fiducia, è un segno di pericolosa ingenuità.

 

La comunicazione ha sempre delle conseguenze, crea condizioni di relazione, costruisce più che ricostruire una realtà che può essere considerata soggettivamente genuina solo se genera quello che dice.

Non è genuina neanche la nostra curiosità di sapere. Non lo è, ovviamente, la risposta che vogliamo ricevere o che ci viene chiesto di dare.

La relazione, il suo mantenersi in un equilibrio spesso precario, prevale sempre sulla genuinità della comunicazione. Dobbiamo salvare la convivenza anche a costo della manipolazione di quello che sappiamo e che potrebbe peggiorare la nostra situazione, la relazione con l’altro, la sua situazione.

Noi prendiamo le misure della persona che pone le domande e ben presto ci facciamo dei preconcetti su di lei, sulla sua funzione, e cerchiamo di adattare la nostra risposta a quello che preferisce che noi rispondiamo. E’ un allenamento quotidiano a non suscitare reazioni che ci potrebbero danneggiare.

Spesso, per essere quello che vogliamo essere, dobbiamo essere quello che ci permettono di essere. Tutta la nostra infanzia parla di questo. Ha dei preconcetti anche chi chiede. Non esiste una relazione a livello zero e pertanto genuina.

Sono genuine le relazioni che stabiliscono i bambini; ma noi facciamo di tutto perché questa genuinità sia persa. Non la consideriamo funzionale alla nostra vita sociale.

Tutto quello che raccontiamo esclude, o include, particolari che risentono di quello che vogliamo comunicare e di quello che vogliamo ottenere.

Un bravo scrittore conosce meglio i modi di confezionare quello che vuole che noi capiamo o sentiamo. Noi altri, meno esperti, facciamo lo stesso.

 

La parola è stata inventata per rendere complessa la comunicazione, come complessa è la vita, per andare oltre la realtà, per plasmarla.

Allora ha senso parlare di genuinità della risposta?

Dice Cunningham nel suo romanzo Al limite della notte: “Troppo ovvio far finta di non saper nulla a questo modo? Rebecca riuscirà a sentire l’odore della menzogna che emana?”

No. Rebecca, sua moglie, che dovrebbe conoscerlo meglio di chiunque altro, non ci riuscirà. Non si accorge di niente. Questo lo lascia stupito.

Ci sono cose che sa e che dice di non sapere, e viene creduto!

Le bugie non dette diventano segreti, e a loro volta modellano il racconto. Del tutto consapevolmente.

Perché l’io narrante sa cosa rimugina l’io pensante, e spesso i due stanno in rapporto tra di loro in modo critico. Giudicante, appunto.

Ma l’altro che ascolta non lo sa.

 

C’è poi il problema della nostra libertà di rispondere senza essere condizionati da chi ci osserva o ci studia, e che prenderà delle decisioni che riguardano l’aspetto che ci sta più a cuore: la libertà di essere trattati bene.

Heisenberg, con il suo principio di indeterminazione, ci ha fatto notare che quanto più cerchiamo di essere precisi nelle osservazioni che facciamo, tanto più sconvolgiamo quello che osserviamo.

Il fatto di osservare un fenomeno lo cambia.

Figurarsi il tentativo di narrarlo, o di farsene un’opinione attraverso l’ascolto.

 

Quello che cercheremo insieme non è la verità: è solo un racconto a più voci. Occorre farlo insieme.

Che idea hanno di giustizia gli attori che mettono in scena il teatro della prova? Quale ruolo gli attribuiscono nel progetto della creazione di situazioni sociali caratterizzate da una migliore qualità della vita? Basta solo andare a sentenza o quello che si aspettano da se stessi e dal loro lavoro è una ricaduta positiva sul modo futuro di stare insieme? E soprattutto, comunicano tra di loro a proposito della loro ricerca? Riconoscono di avere un obiettivo comune, al di là dei ruoli?

L’amministrazione della giustizia, e la giustizia stessa, sono pensate come orizzontali o verticali? Ripropongono una specie di monarchia, naturalmente costituzionale, o sono sensibili alla creazione di una democrazia, magari una democrazia affettiva, nella quale tutti hanno diritto di essere trattati con rispetto?

L’immagine della bilancia è nota. Ma il giudice sente al suo stesso livello l’avvocato? O il pubblico ministero? O pensa che la sua terzietà sia in qualche modo da declinare come una superiorità, per giunta necessaria? Perché se la comunicazione all’interno dell’amministrazione della giustizia ha una gerarchia, tutti siamo costretti a muoverci tra paura e potere, o meglio, avendo paura del potere. Addio alla collaborazione e quindi a quel clima nel quale è più facile comunicare e quindi migliorare le relazioni.

Chi prende decisioni, e in questo modo orienta il racconto, è consapevole che quello che fa ha una ricaduta sul modo futuro di stare insieme?

Il luogo e il tempo della giustizia possono rappresentare un momento di riflessione sulla qualità della vita, che dipende anche dalla qualità della giustizia, e quindi avere funzioni rigenerative.

In questo senso occorrerebbe che dal modo in cui si svolge il processo arrivasse un messaggio molto chiaro al resto della società: il processo è l’ultima possibilità di ristabilire un modo di convivere umano, dal quale la forza sia allontanata, e nel quale il conflitto trovi un modello di accoglienza ed elaborazione diverso da quello della vita di tutti i giorni, frenetica e asfittica.

Occorre cambiare modo di scrivere il soggetto che va in scena nel teatro della prova.

Non più il luogo nel quale gli attori sono convinti di sapere perfettamente la loro parte e si adoprano solo per vedere trionfare le loro opinioni, secondo un rituale nel quale nessuno ascolta nessuno.

 

Abbandoniamo il modello del dialogo socratico, dove chi interroga non vuole altro che condurre l’interrogato a riconoscere la bontà delle sue convinzioni.

Cerchiamo si sviluppare un dialogo galileiano, nel quale si va per tentativi e il fine ultimo è la comprensione di quello che è successo, la ricostruzione condivisa della realtà, la costruzione di fondamenta nuove che tengano conto di cosa non ha funzionato.

Nella consapevolezza che di racconto si tratta, ma di un racconto che non vede in gioco solo la vita delle persone coinvolte, ma anche la riparazione e la rigenerazione di una organizzazione sociale, che dalla giustizia si aspetta un contributo determinante nella creazione di un modo di stare insieme governato sempre meno dalla paura e dal potere.