Molti dati confermano che l’impegno a produrre prima di tutto la ricchezza fa crescere l’insoddisfazione e la fatica di vivere: aumenta la solitudine, la precarietà, la competizione di tutti contro tutti.
Il risultato è un senso di impotenza che rende difficile tentare di governare la propria vita.
Chi crede ciecamente nella società di mercato sostiene che questa è la strada giusta per raggiungere la felicità.
L’obiettivo è sempre ad un passo: occorre solo un altro sforzo, un’altra rinuncia, una maggiore flessibilità.
I sistemi di adattamento vengono così sottoposti ad uno stress sempre più grande che fa emergere comportamenti legati alla mera necessità di garantire la sopravvivenza: la disgregazione del tessuto sociale diventa
quindi inevitabile.
Un’alternativa non esiste se questo è il risultato della “natura” dell’uomo.
A ben osservare, però, ciò che oggi il mercato impone agli individui è solo la ripetizione di quello che gli adulti chiedono, da sempre, ai bambini.
I nuovi arrivati, se non vogliono farsi trattare male, devono solo accettare di adattarsi.
Gli adulti non hanno né tempo né voglia di sperimentare che l’autonomia dei piccoli non rappresenta un pericolo per l’organizzazione del loro mondo, ma una risorsa. Per questo contrastano la disponibilità a collaborare, la creatività, il senso della possibilità dei giovani per sostituirli con la competitività, la capacità di autocontrollo, l’insoddisfazione che nasce dalla mancanza di alternative.
Il codice di comportamento sociale è considerato immodificabile e va trasferito senza cedimenti. Questo obiettivo giustifica il ricorso alle minacce “bonarie” e, in qualche caso, alla forza della punizione.
Non dovrebbe, quindi, suscitare nessuna sorpresa se gli adulti, cresciuti in questo clima di rifiuto delle alternative, sanno solo adattare la soddisfazione dei loro bisogni, a ciò che viene offerto.
Sono i nuovi arrivati che spingono perché le cose cambino.
I bambini nascono predisposti per essere trattati come pari. Gli adulti, pur di non mettere in crisi la riproduzione del loro modello gerarchico (prima i maschi, poi le donne, quindi i bambini e per ultime le bambine) vogliono invece che si conquistino questo diritto.
L’unico modello di relazione nel quale non si fa ricorso alla forza potrebbe essere definito come democrazia affettiva.
La famiglia, la scuola, la religione, come tutte le organizzazioni che accolgono i nuovi arrivati, invece generano solo conflitto e malessere se si pongono come unico obiettivo l’integrazione, a qualunque costo.
La fatica generata da questo tipo di educazione rende gli adulti più irritabili e deteriora ulteriormente la relazione.
D’altra parte se l’educazione si trasforma in una lotta, il risultato che dobbiamo attenderci è che i giovani imparino a lottare per conquistarsi la loro indipendenza.
I nuovi arrivati, non potendo partecipare alla creazione delle regole che riguardano il governo della loro vita, imparano a temere chi nega loro questo diritto.
Crescendo possono sperimentare qualunque luogo di incontro con chi esercita un potere su di loro come estraneo, immutabile, ingovernabile.
Nel migliore dei casi non lo ameranno e perderanno la fiducia nella possibilità di migliorarlo. Nel peggiore lo considereranno un ostacolo da abbattere.
Nella distribuzione dei ruoli sociali qualcosa non funziona. Sempre più giovani non vogliono diventare adulti. Gli adulti, da parte loro, si offendono quando si sentono trattati con la stessa mancanza di rispetto con
cui normalmente trattano i bambini.
Inoltre ogni nuovo arrivato, durante il periodo in cui è in “prova”, impara anche a stare in rapporto con se stesso, secondo una scala di modalità che vanno dal rispetto assoluto delle regole di Creonte, al rispetto solo per le
leggi del cuore di Antigone, alla rigidità del ribelle, disposto a fare del male a se stesso e agli altri, pur di sentirsi padrone della propria vita.
La capacità di trattarsi male viene appresa solo dalla specie umana, l’unica che ha nel suo patrimonio genetico la possibilità di produrre cambiamenti nelle regole dello stare insieme e, quindi, di sottrarle alla brutalità della
biologia.
Chi non è dotato di forza, come le donne e i bambini, sente la necessità di creare le condizioni che lo facciano vivere al sicuro dalla prepotenza del più forte.
Tentare di integrare i nuovi arrivati, con i mezzi che la paura e il potere mettono a disposizione, ed annullare la loro possibilità di proporre modalità che rendano più facile lo stare insieme, rappresenta un ritardo
per questo miglioramento.
Anche le relazioni rispondono alla prudenza del rispetto dell’ecologia.