L’affettività di cui mi piace occuparmi è il risultato di una cultura, di una scelta, che dovrebbe partire dai primi istanti della vita. Anche la democrazia, in questo senso, dovrebbe essere arricchita dall’aggettivo affettiva, perché a mio parere non si costruisce una democrazia se non si rinuncia all’uso della forza e se non si riconosce uguale dignità a tutti gli appartenenti alla specie umana, a prescindere dal genere, dal colore, dalle convinzioni e soprattutto dall’età. Tutti devono essere trattati bene, da pari, senza scorciatoie giustificate da una presunta inferiorità o dalla emergenza. Occorre, certo, tenere conto delle nostre origini animali, che ogni tanto emergono in certi comportamenti e sono criticate. Altri comportamenti, come la scelta di ritenere il maltrattamento uno strumento indispensabile alla costruzione della società umana e alla realizzazione dei suoi obiettivi, sono invece accettati dalla maggior parte delle persone. Lo stress dell’apprendimento delle regole, per esempio, è tollerato, specialmente quando riguarda i bambini. Probabilmente non si vede in questo modo scortese di comportarsi, l’educazione è spesso scortese, un terreno fertile in cui far crescere comportamenti che rendono difficile lo stare insieme. Diciamo che nel nostro modello di costruzione delle relazioni, basato ancora sul premio punizione, la rottura dei legami di fiducia, specialmente nel rapporto adulti/bambini, è considerata quasi inevitabile. In fondo, sono dei bambini, quindi ancora non hanno diritto a essere trattati come gli adulti vogliono essere trattati. Di solito noi ci fidiamo di chi ci tratta bene, e di chi non ricorre alla forza per governare la nostra esistenza. Ma questa specie di alleanza non vale nelle prime fasi della vita. Siamo noi che decidiamo quando i nostri piccoli possono avere fame, o sonno, o possono stare con noi o lontani da noi. Non teniamo deliberatamente conto delle loro preferenze, forse perché le consideriamo un pericolo per la stabilità del nostro sistema. Questo vuol dire tagliare la scala sotto i nostri piedi. Molti pensano che la democrazia sia una conquista che si può fare solo da grandi, dopo un periodo di dittatura “benevola”. E la questione si ripropone anche quando non riusciamo a capire le scelte di chi ci governa, a volte perché abbiamo la sensazione di essere trattati come bambini. Ancora una volta. Questa modalità, che è dichiaratamente accettata nella relazione imperatore/sudditi o nel modello religioso (Dio è padre per antonomasia e noi restiamo figli per sempre), viene accettata anche nel modello democratico, che in questo modo diventa parzialmente democratico. Le radici culturali della democrazia sono le stesse dell’impero o della religione. Così, in caso di necessità, o di emergenza, il governo tratta i cittadini come bambini, figli dai quali si pretende innanzi tutto l’obbedienza: il massimo del contributo che possono dare. L’affettività per me è sinonimo di trattare bene, e si può imparare o non imparare a seconda delle esperienze iniziali della vita. Sta di fatto che noi siamo gli unici esseri viventi capaci di sacrificio o di maltrattamento nei confronti di noi stessi. Questo crea delle fondamenta molto precarie allo stare insieme, se può succedere che qualcuno ti obblighi a trattarti male dicendoti che è l’unico modo per ottenere il tuo bene. Questo tipo di relazione non può essere definita affettiva, per ovvi motivi. Ma soprattutto perché è fondata su modalità di potere, alto/basso. Il governo dell’affettività è qualcosa di culturale, molto vicino al metodo scientifico, con in più la chiarezza che quello che facciamo deve farci fermare quando crea sofferenza. La società moderna sostituisce a dio e all’imperatore il potere economico e racconta che in questo modo potrai comprarti la libertà, ovvero l’autonomia e l’autodeterminazione. Questo non produce una reale libertà, perché la libertà che ci propone la democrazia “capitalistica” è comunque un premio, non un diritto. Non sei libero in quanto la libertà è come l’acqua nella quale nuotano i pesci. Puoi diventarlo solo se rispetti le condizioni che ti vengono imposte. Non solo, ma la libertà individuale viene messa all’asta in una competizione più o meno regolata, nella quale sicuramente non tutti partono alla pari. Le donne per esempio continuano a partire svantaggiate, e così i bambini, che devono accettare di appartenere a un gruppo se non vogliono essere rifiutati. La diversità è sempre uno svantaggio. Diversità da cosa? Dalle idee di chi ha il potere. La libertà individuale del sistema democratico (o apparentemente democratico) è di nuovo collegata alla forza e ovviamente non prevede tra i suoi effetti, anche nel lontano futuro, una società che rinuncia a qualsiasi forma di conflitto. La democrazia affettiva potrebbe essere la soluzione: insegniamo a tutti gli individui la parità e rinunciamo a esporli all’uso, controllato nel migliore dei casi, della forza. Se cresci pensando che non è necessario fare male a te stesso (per emergere o per essere amato) è possibile che non ti venga in mente di fare male a un altro. Soprattutto se il primo altro che hai sperimentato, per di più in un ambito obbligato come la famiglia o la scuola, è qualcuno che non ti ha fatto stare male. Quindi l’obiettivo è la parità. Di modo che qualsiasi sia la situazione da affrontare, a nessuno venga in mente di ricorrere a considerare il cittadino un bambino, da spingere solo all’obbedienza. Nella democrazia affettiva è evidente che la limitazione della libertà non è mai una scelta da imporre: la si può condividere. Poi arriva il Covid e mette in crisi il sistema di governo delle relazioni umane. E le riporta indietro nel tempo. Ritira fuori la colpa, la restrizione della libertà: e giustifica sia la malattia come colpa che la negazione della libertà come necessaria alla sopravvivenza. Scelte presentate senza alternative. E spinge chi ci governa alla vecchia divisione: adulti, coloro che prendono le decisioni, e di conseguenza i cittadini tornano ad essere bambini che obbediscono, o che trasgrediscono. Un modello estremamente semplificato, mentre la democrazia è una scelta complessa. In questa emergenza in tutto il mondo la democrazia è stata sospesa utilizzando un linguaggio tipico della guerra: abbiamo un nemico fortissimo, per cui serve qualcuno che prenda decisioni e tutti gli altri devono obbedire. In guerra la democrazia è un lusso. E dire che stiamo vivendo una guerra è un modo per sospenderla. L’unica forma di pensiero che si avvicina di più all’idea di democrazia, al momento, è la scienza. Perché la scienza non è succube di preconcetti, non si lascia condizionare dalle emozioni, non ha paura di tentare di rendere migliore la qualità della nostra vita. In più ha delle regole certe (o quasi). O perlomeno condivise. Basa le sue scelte sulla possibilità di sbagliare e di imparare dall’errore. La scienza sa di disporre di un sapere insufficiente, ma sa anche che qualsiasi decisione viene presa in carenza di dati, dati che diventano disponibili solo dopo aver preso la decisione e che possono per questo essere utili a migliorare la precedente decisione. Questa laicità della scienza è la caratteristica che più mi ha affascinato e mi affascina, nel senso che non si affida né a Dio né all’imperatore. La scienza lavora per ridurre la fatica, e la fatica potrebbe essere un’ottima misura del conflitto. La scienza lavora per rendere facile la vita, il che significa ridurne la fatica, ma non presumere di eliminare il rischio, l’imponderabile. Il rispetto del rischio fa parte della scienza, che non pretende, religiosamente, di eliminarlo. La scienza ha criteri oggettivi di validazione: la verità non discende dall’alto, ma è quello che funziona. La scienza ha bisogno di raccogliere dati e di renderli disponibili. Forse è una fantasia, una utopia o una possibilità pensare che il pensiero scientifico rappresenti il miglior sentiero per percorrere la strada che conduce all’umanizzazione delle nostre esperienze? Proviamo ad affrontare quello che sta succedendo con un pensiero scientifico. Ci troviamo di fronte a una difficoltà? Qual è il problema? Per farlo occorre avere dati leggibili. Non solo, ma aver creato fiducia nel sistema che fornisce i dati. Poi prendere le decisioni, governare, secondo i criteri della democrazia attraverso un dibattito parlamentare e la supervisione del presidente della repubblica. E il rispetto delle differenze delle idee minoritarie. Chi governa ha il dovere di dimostrare che i dati che ha a disposizione lo hanno aiutato a fare delle scelte concrete, verificabili, per esempio aumentare il numero di letti disponibili in ospedale, aumentare il numero degli studenti in medicina e in scienze infermieristiche, selezionare e formare personale per il tracciamento dei casi positivi. Se tutto questo non viene fatto, significa che i governanti sono i primi a non rispettare i dati che hanno a disposizione e a farsi governare da emozioni come la paura della morte. In questo senso sostengo che i politici, coloro che scelgono di fare politica, come la maggior parte di coloro che riesce ad avere successo in un sistema ancora basato sul trattamento scortese dei nuovi arrivati, si appoggiano tutti all’idea che la democrazia sia solo una parola e che alla fine ciò che conta è governare in modo non troppo dissimile da quello che utilizzava l’imperatore o la religione.